La psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT) postula una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti, assumendo che le problematiche affettive scaturiscano da modalità disfunzionali di pensare e agire nel presente, qui e ora. L’elaborazione di nuovi stili di pensiero e comportamento e l’acquisizione di nuove strategie di gestione della sofferenza possono liberarci dai problemi che ci affliggono da tempo.
La psicoterapia cognitivo comportamentale fa la sua comparsa nel mondo della psicologia diffondendosi intorno agli anni ‘80. Come il termine stesso suggerisce, questa combina due forme di terapia estremamente efficaci: la terapia comportamentale e la terapia cognitiva.
La terapia comportamentale nasce negli anni ’50, quasi contemporaneamente, in tre continenti diversi (Sudafrica, Stati Uniti e Inghilterra), ispirandosi agli studi sull’apprendimento con condizionamento per il trattamento di fobie, dei disturbi d’ansia e della schizofrenia.
Questa prima forma di psicoterapia, detta anche terapia di prima generazione, è focalizzata sulla modifica della relazione fra gli eventi stressanti e le abituali reazioni emotive e comportamentali che la persona attua in queste circostanze.
Pur incontrando una larga diffusione, questo approccio si scontrò presto col suo limite principale: non si interessava infatti dei processi psicologici interni della mente. Il calo di influenza dell’allora predominante comportamentismo favorisce lo sviluppo delle terapie di seconda generazione.
Le terapie di seconda generazione nascono negli anni ’70 con lo sviluppo del cognitivismo negli Stati Uniti grazie alla diffusione dei lavori scientifici di Aaron Beck e Albert Ellis.
Il cognitivismo si concentra sullo studio dei processi cognitivi, su come questi si sviluppino e modifichino affetti e comportamenti. In questo modello, terapeuta e paziente collaborano attivamente per modificare i pensieri automatici negativi (relativi a sé stessi, al proprio futuro e al mondo) che sostengono la sofferenza emotiva, individuando nuove strategie volte a tenere fuori dalla mente i pensieri dolorosi e costruendo nuovi punti di vista sul mondo.
Sul finire degli anni ’80 aspetti cognitivi e comportamentali vengono integrati nella terapia cognitivo comportamentale o CBT, che rappresenta la forma di psicoterapia attualmente più studiata e validata al mondo.
La terapia cognitivo comportamentale presenta alcune caratteristiche fondamentali che in questi anni l’hanno resa il trattamento d’elezione per la stragrande maggioranza dei problemi psichici.
Fondata scientificamente:
l’efficacia delle tecniche e dei protocolli della terapia cognitivo
comportamentale è monitorata e comprovata da innumerevoli studi
scientifici.
Diretta allo scopo: il terapeuta lavora insieme alla persona per stabilire gli obiettivi e gli interventi più appropriati alla risoluzione del problema che affligge la persona.
Centrata sul problema attuale: l’attenzione è focalizzata su ciò che nel qui ed ora mantiene la sofferenza, pur considerando il passato come utile fonte di informazione circa l’origine e lo sviluppo dei sintomi nel tempo.
Attiva e collaborativa: terapeuta e paziente collaborano attivamente per capire e risolvere il problema. Il terapeuta propone le strategie adeguate al padroneggiamento della sofferenza e il paziente, a sua volta, lavora nello spazio tra una seduta e l’altra per mettere in pratica le strategie apprese durante gli incontri.
La terapia cognitivo comportamentale mira a far diventare il paziente terapeuta di se stesso: il terapeuta mantiene un atteggiamento psicoeducativo, educando la persona sulla natura del suo disturbo, sul processo della terapia e sulle tecniche cognitive e comportamentali.
Negli ultimi anni 20 anni la psicoterapia cognitivo comportamentale classica si è arricchita di un insieme eterogeneo di nuove forme di psicoterapia. Sono le cosiddette terapie di terza generazione o di terza onda che, indubbiamente, forniscono un ampio ventaglio di soluzioni ai clinici che gli permette di restituire al paziente un progetto esistenziale soddisfacente in tempi contenuti. Il termine terza onda compare per la prima volta in un articolo scientifico del 2004 ad opera dello psicologo comportamentista Steven Hayes. Con questa espressione l’Autore indicava forme di psicoterapia, anche molto diverse tra loro, ma che sostenevano la centralità nel processo terapeutico di alcuni aspetti: l’importanza dell’accettazione, la defusione cognitiva (cioè la capacità di osservare i propri processi cognitivi ed emotivi senza giudizio), l’uso di pratiche di meditazione come la mindfulness e di esercizi immaginativi, il focus sui valori personali.
Tra queste, le psicoterapie che hanno preso sempre più piede grazie alle prove scientifiche di efficacia sono:
Diamo una rapida descrizione di queste forme di terapia:
La mindfulness è una pratica meditativa derivante dalla tradizione buddhista, le cui origini risalgono al 2500 a.c. Oggetti centrali di questa pratica sono il corpo, le sensazioni, la mente e i fattori mentali.
La sua diffusione nella medicina e nella psicologia clinica occidentali si deve a Jon Kabat-Zinn, professore di medicina presso la University di Massachusetts, che intorno agli anni ’70 traduce la sua esperienza personale con lo yoga e la meditazione zen in fondamenti cardine della sua pratica professionale.
La parola mindfulness è un termine inglese traducibile in italiano con le parole “consapevolezza” o “piena attenzione”. Identifica uno stato di coscienza in cui siamo testimoni vigili e presenti della nostra esperienza interna. Porsi in un atteggiamento mindfulness significa quindi osservare ciò che stiamo sentendo (emozioni e percezioni) e pensando, nel momento presente, siano essi piacevoli o dolorosi, accettandoli per come sono senza giudicarli o volerli eliminare, semplicemente notandoli e poi lasciandoli andare.
La mindfulness invita ad osservare la propria esperienza nella sua totalità, anche nella sua componente dolorosa. Se la componente dolorosa della vita non possiamo evitarla, allora possiamo imparare a fare spazio anche a quello che non ci piace. Facendo questo, ci svincoliamo dalle consuete modalità di reazione automatica e ci predisponiamo a una gestione consapevole ed efficace delle cause della nostra sofferenza. Interrompere gli automatismi, far si che la persona non agisca scenari mentali poco equilibrati ma impari a sospendere o abbandonare reazioni comportamentali inadeguate è certamente un passaggio clinico cruciale nel processo terapeutico.
Questa prerogativa ha reso la mindfulness uno strumento potentissimo, e si comprende come negli ultimi anni sia stata integrata in diversi modelli e programmi di terapia cognitivo comportamentale nel mondo occidentale.
Il protocollo Mindfulness Based Reductione (MBSR) è stato il primo mindfulness training nato proprio dal lavoro di Jon Kabat-Zinn. Originariamente ideato per pazienti affetti da dolore cronico o malattie terminali ha trovato in seguito larga applicazione su altre condizioni cliniche fisiche e psicologiche, come nel trattamento CBT dei disturbi d’ansia, del disturbo borderline di personalità e nei disturbi di tipo dissociativo. Il programma MBSR è volto a promuovere il rilassamento fisico ed emotivo mediante pratiche “centrali” di mindfulness: questo aumenta il benessere dell’individuo, migliora la gestione dello stress e favorisce il corretto funzionamento delle risorse naturali di guarigione dell’organismo.
Un evoluzione di questo programma è rappresentato dalla Mindulness Based Therapy, un protocollo ideato per pazienti con esperienza di depressione maggiore. Obiettivo fondamentale di questo protocollo è quello di lavorare su pensieri, emozioni e sensazioni che si riattivano in modo automatico durante periodi di umore negativo, modificando radicalmente la relazione che il paziente depresso mantiene con l’esperienza interna dolorosa.
Il modello dell’Acceptance and Commitment Therapy si fonda sul presupposto che gli esseri umani gestiscono l’esperienza interna dolorosa in modo inefficace, cercando in tutti i modi di non sentirla e di allontanarla dalla propria vita. Ma questi tentativi si rivelano invariabilmente fallimentari e acuiscono la sofferenza. Le condotte comportamenti disfunzionali (o inflessibilità psicologica) che si associano agli stati di sofferenza sarebbero allora il frutto di questi tentativi di evitamento.
Nel modello dell’ACT, il terapeuta guida il paziente ad instaurare un contatto sano con quei pensieri, sentimenti ed emozioni che sono state temute fino a quel momento. Fa questo ricorrendo a
un uso funzionale del linguaggio (metafore, paradossi), esercizi esperienziali e tecniche di mindfulness. Progressivamente il paziente impara a lasciar andare e venire i pensieri e la sofferenza ad essi associata. Impara ad accettarli, osservandoli in modo distanziato ma non giudicante.
Nell’ACT una parte fondamentale del percorso con il paziente è dedicata alla ridefinizione o riscoperta dei propri valori personali. Questi sono intesi come nucleo di motivazioni che orienta le nostre scelte comportamentali.
Quando siamo molto sofferenti, facciamo fatica a ricordarceli. Allora, imparare ad attraversare il proprio dolore accettando gli eventi interni permette un accesso diretto e consapevole al nucleo dei propri valori personali. Solo quando la persona ha compreso ciò che per sé è importante può impegnarsi per operare un cambiamento e riacciuffare un equilibrio. L’ACT
La Compassion Focused Therapy (CFT), o terapia focalizzata sulla compassione, è stata sviluppata da Paul Gilbert nei primi anni 2000. Durante il suo lavoro Gilbert si rese conto che le tradizionali tecniche psicoterapeutiche avevano una scarsa efficacia sulle persone con alti livelli di autocritica: pur applicandosi con diligenza negli esercizi cognitivi e comportamentali queste persone conservavano uno stato mentale orientato all’auto-colpevolizzazione per la loro condizione, un atteggiamento che manteneva i sintomi e ricorsivamente esasperava la sofferenza.
Gilbert si accorse che queste persone avevano in comune storie familiari infauste, con esperienze di abuso, abbandono o periodi di incuria da parte delle figure di riferimento. Queste esperienze avevano contribuito allo sviluppo di una rappresentazione di sè inadeguata, sbagliata e per questo passibile di abbandono e rifiuto. Inevitabile lo strutturarsi di un’autocritica incessante, che però impediva alla persona ormai adulta la possibilità di accedere a sentimenti di calore e sicurezza, prerogativa invece di relazioni di attaccamento sicuro nell’infanzia.
L’obiettivo della CFT è quello di aiutare le persone a sviluppare un atteggiamento compassionevole verso sè stessi e verso gli altri. E’ importante chiarire che nell’ottica della CFT la compassione non è pietà o commiserazione, ma il sentimento empatico di partecipazione al proprio o all’altrui dolore.
Per il raggiungimento del suo obiettivo anche la della CFT si avvale della meditazione mindfulness insieme ad altri interventi che includono: tecniche di consapevolezza corporea come il respiro calmante, le immaginazioni guidate, la scrittura di lettere compassionevoli e il ragionamento compassionevole.
La Dialectical Behavioural Therapy (DBT) è stata messa a punto da Marsha Linehan presso la University of Washington a Seattle per il trattamento del disturbo borderline di personalità. Negli ultimi vent’anni si è rivelata particolarmente efficace anche nel trattamento di pazienti affetti da disturbo alimentare e abuso di sostanze, ottenendo così ampia diffusione.
Punto cardine della DBT è il concetto di equilibrio dialettico tra accettazione e cambiamento: nel processo terapeutico il cambiamento è ottenuto attraverso l’uso del dialogo persuasivo e delle opposizioni tra paziente e terapeuta intrinseche alla natura stessa della relazione. Nell’impostazione dialettica l’individuo e il suo ambiente non possono mai essere considerati separatamente. Individuo e ambiente si trovano in un rapporto di mutua e continua interazione, reciprocità e interdipendenza: l’individuo risente delle influenze ambientali, così come a sua volta l’ambiente viene da esso influenzato e determinato.
La DBT assume che alla base di del disturbo borderline vi sia una compromissione funzionale dei sistemi di regolazione emozionale. Questa alterazione sarebbe a sua volta la diretta conseguenza di anomalie biologiche costituzionali (o vulnerabilità biologica) individuali, esacerbate da specifiche circostanze ambientali (ambiente invalidante) ed esperienze di vita sfavorevoli.
Le caratteristiche tipiche della vulnerabilità biologica individuale sono tre: una elevata sensibilità agli stimoli, per la quale l’individuo ha una pronta reazione emotiva anche dinanzi a stimoli ambientali minimi; un’alta reattività, per cui la reazione emotiva allo stimolo ambientale è estrema; un lento ritorno allo stato di quiete iniziale.
In presenza di circostanze ambientali sfavorevoli durante l’infanzia, il bambino non può sviluppare la capacità di scegliere e regolare qualitativamente e quantitativamente le sue risposte agli stimoli ambientali, non impara a tollerare gli stress emotivi, né riesce mai ad avere la sicurezza che le sue risposte emozionali corrispondano a una corretta interpretazione degli eventi e delle condizioni ambientali. In età adulta, l’individuo sviluppa la tendenza a fare proprie le caratteristiche invalidanti del suo ambiente.
In un ambiente invalidante l’espressione dei propri stati interni non solo non viene validata né riconosciuta, ma spesso viene punita o minimizzata e criticata. Gli affetti dolorosi del soggetto e i fattori che egli identifica come cause del proprio stato emotivo vengono trascurati o ignorati. Il modo in cui l’individuo interpreta il proprio comportamento, gli intenti e le proprie convinzioni, viene disconfermato. In un ambiente con tali caratteristiche l’individuo sviluppa significative difficoltà nel riconoscimento dei propri stati affettivi o una marcata tendenza alla negazione, della circostanza ambientale problematica che ha suscitato l’emozione stessa; a vere e proprie condotte di evitamento delle emozioni; all’ autocritica incessante.
L’individuo adulto così confuso, oscilla continuamente tra congelamento emotivo e reazioni emotive di sregolate la disregolazione emozionale, nel modello DBT trascina con sé anche la disregolazione cognitiva e comportamentale (impulsività, autolesionismo e condotte suicidarie) e interpersonale.
Scopo della DBT è guidare il paziente nella costruzione di “una vita degna di essere vissuta”, identificando e imparando a gestire gli aspetti problematici del proprio funzionamento ma anche le risorse presenti. Per fare questo, integra un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale individuale con un training di gruppo – sulle abilità interpersonali, sulle capacità di autoregolazione emozionale e di tolleranza della sofferenza – in cui vengono insegnate una serie di tecniche tra cui la mindfulness. Nella DBT l’uso della mindfulness è finalizzato a far accettare la realtà per quella che è (qualunque essa sia) e con accettazione ssi intende un atto di scelta consapevole e non un atto di resa.
La Terapia Metacognitivo-Interpersonale (TMI) è un modello di psicoterapia per i disturbi gravi della personalità sviluppato da Semerari e colleghi negli anni ´90. Nell’ambito di un programma di ricerca sul paziente grave, il gruppo di lavoro osservò che alcuni pazienti non riuscivano a riflettere sui propri stati mentali: comprendere cosa avesse scatenato un’emozione e in che modo quell’emozione avesse portato a conseguenze negative che la persona non riusciva a padroneggiare. Spesso questi pazienti faticavano a comprendere cosa gli altri pensassero e sentissero e ad utilizzare questa conoscenza per migliorare la loro vita di relazione, costruendo legami stabili ed equilibrati. Questi pazienti rispondevano meno ai trattamenti psicoterapeutici cognitivisti esistenti all’epoca.
Da queste ed altre osservazioni nacque la TMI per la quale uno dei nuclei della patologia di personalità sarebbero i malfunzionamenti nella metacognizione. Semerari e colleghi definiscono la meta cognizione come “l’insieme delle abilità che consentono all’individuo di attribuire e riconoscere la presenza di stati mentali (es. emozioni, pensieri, desideri, bisogni, intenzioni) in se stesso e negli altri – a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti ed azioni -, di riflettere e ragionare su di essi e di utilizzare tali conoscenze per prendere delle decisioni, risolvere i problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare efficacemente i propri desideri e scopi con gli altri”, e assunsero che fosse proprio la difficoltà a riflettere sul proprio e altrui mondo interiore e usare tale conoscenza per risolvere problemi relazionali.
La TMI assume anche che i problemi principali in questi pazienti la sofferenza sia mantenuta dai modi disfunzionali n cui si rappresentano le relazioni con gli altri (schema interpersonale). In particolare, chi presenta questo tipo di patologia si relaziona all’altro con un insieme di aspettative negative – su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani, bisogni e ambizioni -, che generano atteggiamenti e reazioni emotivo-comportamentali coerenti con le proprie previsioni. Questo circuito relazionale (ciclo interpersonale problematici) conferma nella persona le proprie aspettative e mantiene stabile nel tempo lo schema. Nella TMI l’obiettivo non è quello di considerare sbagliato o irrealistico lo schema, ma far notare che è ricorrente e maladattivo.
Attraverso una serie di tecniche specifiche e un paziente lavoro sulla relazione terapeutica il clinico TMI promuove la metacognizione, favorisce la costruzione di parti sane della personalità, aiuta il paziente a costruire nuovi schemi e abilità che permettano di muoversi in modo più flessibile ed efficace in società.
È una forma di terapia che integra elementi di tecnica provenienti da molteplici sorgenti, da altre forme di psicoterapia cognitiva alla psicoanalisi tradizionale. Si colloca storicamente nella famiglia delle terapie cognitivo comportamentali, con le quali presenta punti di contatto ma anche elementi di distinzione.
La Schema Therapy è un approccio terapeutico integrato formulato da Jeffrey Young per il trattamento dei disturbi di personalità e di altri disturbi psichici cronici.
Integra nel suo modello approcci e tecniche derivanti da diversi modelli teorici fra cui la terapia cognitivo comportamentale standard, la teoria dell’attaccamento, la terapia della Gestalt e la psicodinamica.
Nella ST è centrale il bisogno emotivo del paziente. Il mancato soddisfacimento dei bisogni nelle relazioni con le figure di attaccamento durante lo sviluppo può generare Schemi Maladattivi Precoci: cioè temi che includono pensieri, emozioni e sensazioni, che si riattivano e reiterano in età adulta orientando il comportamento in senso maladattivo. Gli Schemi Maladattivi Precoci possono ostacolare la possibilità di costruire un repertorio comportamentale funzionale al proprio benessere, fino allo strutturarsi di quadri sintomatologici clinicamente significativi.
L’insieme degli schemi attivi nell’ individuo in un determinato momento sono poi definiti Mode. Un Mode si configura come stato momentaneo osservabile che condiziona la reazione a un determinato stimolo. Quando è disfunzionale si esprime in emozioni spiacevoli, risposte di evitamento o comportamenti autodistruttivi. La ST descrive quattro diverse tipologie di Mode: il Mode bambino, il Mode genitore, il Mode Adulto sano/funzionale e il Mode di Coping.
Scopo del terapeuta ST è lavorare per rafforzare il Mode Adulto sano del paziente rendendolo capace di prendersi cura del Mode del Bambino vulnerabile, ridimensionando il Mode del Genitore critico, affinando strategie di coping funzionali.
La modalità con cui questo obiettivo è perseguito varia da situazione a situazione, a seconda delle caratteristiche del paziente, attraverso il ricorso a tecniche esperienziali ed esercizi immaginativi. Rispetto agli altri approcci qui presentati, nella ST l’attenzione sull’utilizzo della mindfulness è meno marcata. La relazione terapeutica costituisce il contesto fondamentale entro il quale il paziente comprende quale impatto possono avere sugli altri le sue modalità relazionali e ne sperimenta di nuove. È nella relazione terapeutica che il paziente acquisisce maggiore consapevolezza dei suoi Mode e li modifica.
L’EMDR è un metodologia terapeutica ben strutturata per il trattamento delle esperienze traumatiche (semplici e complesse) o di esperienze comuni emotivamente stressanti. Elaborata nel 1987, è stata sottoposta a diversi studi controllati di efficacia i cui risultati hanno portato nel 2000 al suo inserimento nelle Linee Guida della Society for Traumatic Stress Studies per l’elaborazione del trauma psicologico.
L’EMDR si fonda sul modello teorico dell’Adaptive Information Processing. Secondo questo modello, in condizioni normali, un sistema innato adattativo processa le informazioni legate alle diverse esperienze di vita quotidiana. In condizioni di stress acuto può accadere che questo sistema si arresti, impedendo la spontanea elaborazione del trauma. In questo caso, le informazioni relative all’evento stressante (o traumatico) non vengono integrate con il resto delle esperienze, ma rimangono bloccate nel cervello con le immagini, i suoni, gli odori, i pensieri e le emozioni esperite al momento dell’evento.
L’EMDR agisce proprio sui ricordi di eventi traumatici, riattivandone l’elaborazione per mezzo della stimolazione bilaterale. Al termine del trattamento si registra solitamente un cambiamento del ricordo nei contenuti e nel modo in cui si presenta. Si apprezza anche una attenuazione delle emozioni dolorose e delle sensazioni corporee sgradevoli ad esso associate. Il paziente sente che l’esperienza traumatica fa parte del passato.
La psicoterapia Sensomotoria è stata sviluppata negli anni ’80 da Pat Ogden per il trattamento delle esperienze traumatiche complesse. Coniuga al suo interno i diversi modelli psicoterapeutici tradizionali (psicoanalitici e cognitivo comportamentali) con le neuroscienze, la mindfulness e gli approcci corporei. Ed è proprio sul corpo che la Psicoterapia sensomotoria concentra la sua attenzione, considerandolo punto di accesso per l’elaborazione di eventi traumatici.
Nelle sedute di psicoterapia sensomotoria il terapeuta si concentra sulle sensazioni fisiche che si attivano nel qui ed ora, regolandole in modo da mantenere il paziente in una finestra di tolleranza delle emozioni. In questo stato sarà possibile ri-processare, piuttosto che evitare, i vissuti emotivi allarmanti dell’esperienza traumatica in modo funzionale, integrandoli in un’esperienza sempre più regolata. . Il paziente traumatizzato costruisce gradatamente un senso di sé radicato, competente e orientato all’esperienza presente. Impara ad occuparsi non solo del trauma ma anche di tutte quelle situazioni dolorose dell’infanzia che possono aver lasciato traccia nel corpo o nei comportamenti, condizionando i pensieri e le emozioni.
Allo stato attuale la psicoterapia senso motoria rappresenta il trattamento specifico per il disturbo post-traumatico da stress, per i disturbi post-traumatici complessi e i disturbi relativi allo sviluppo e alla storia di attaccamento.
Lo sviluppo di questi modelli nel mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale ha generato una rapida evoluzione degli strumenti di cura che, nelle mani competenti dei clinici, aprono la strada alla possibilità di diminuire in modo significativo la sofferenza psicologica dell’individuo, consentendogli di realizzare un progetto esistenziale soddisfacente.
Se in passato il confine il confine tra i diversi modelli terapeutici era molto ben delimitato oggi non è più così. Si inizia infatti a parlare di psicoterapie integrate, cioè di approcci terapeutici ibridi che sono influenzati da paradigmi epistemologici diversi. In qualsiasi modo li si voglia definire, è indubbio il fatto che il moltiplicarsi di tutti questi modelli rappresenta un segno positivo di progresso della psicoterapia.
Tuttavia nessun terapeuta può ragionevolmente padroneggiare da solo l’insieme delle possibilità che questa disciplina attualmente offre. Anche per questo il nostro studio accoglie un gruppo di lavoro composto da psicoterapeuti esperti nell’uso di diverse tecniche, in modo da favorire multidisciplinarietà e integrazione.