Scritto da:
Dott.ssa Federica Medda
Psichiatra e Psicoterapeuta
Tanti hanno scritto sulla figura di Arthur Fleck, il protagonista del nuovo film diretto da Todd Phillips. E indubbiamente “Joker” si presta a molteplici interpretazioni e riflessioni che variano al variare della moltitudine dell’esperienza umana.
Una delle possibili chiavi di lettura è l’effetto straripante della solitudine, prodotto dell’interazione individuo-ambiente.
A ben vedere il protagonista è spesso ritratto solo, mentre tutto e tutti si muovono attorno a lui, con atteggiamento noncurante (nel più benevolo dei casi) se non francamente ostile. In un crescendo aumenta la distanza tra Arthur Fleck e il mondo che lo circonda: prima con i passanti di una città caotica, poi con la terapeuta, con il capo e i colleghi, con la madre e, infine, con l’idolo televisivo.
Al progredire dell’isolamento corrisponde l’irrigidimento del corpo, ritratto in modo quasi trasfigurato e bestiale, spigoloso, così come pure appare inasprita e congelata la sfera emotiva. A riguardo è stata particolarmente felice l’improvvisazione di Joaquin Phoenix, l’attore protagonista, che tra lo stupore di tutti, durante una scena del film, si è infilato all’interno di un frigorifero. Frigorifero che in questo contesto può essere metafora del rannicchiarsi su sé stesso, nel freddo delle relazioni umane, al fine di raggiungere un’anestesia emotiva e non soffrire più per la solitudine provata.
Molti hanno interpretato il film come la rappresentazione degli effetti negativi di una società prepotente sulla psiche umana, ma io credo che si debba fare un passo indietro e cercare di capire come si sia instaurato questo rapporto tra Arthur e gli altri, d’altronde le relazioni sono sempre il frutto di due esperienze che si incontrano e entrambi i fattori sono importanti.
Arthur, sin da piccolo, si è sentito dire dalla madre che è venuto al mondo per “portare risate e gioia nel mondo” e nel corso del suo sviluppo ha potenziato quei tratti di sé che rispondevano ai desideri materni e ha soffocato qualsiasi aspetto potesse essere disapprovato. Una bella responsabilità per chiunque, con il suo carico di aspettative e di impliciti divieti emotivi, figuriamoci per un bambino vittima di abusi, con una patologia che causa un riso spastico (gli scherzi della vita!) e una madre malata a cui badare.
Teniamo conto del fatto che il nostro muoverci nel mondo è influenzato dalle nostre prime esperienze di vita, sulla base delle quali organizziamo la conoscenza di noi e degli altri. Questa conoscenza tacita (fatta di emozioni, percezioni, immagini mentali) costituisce una sorta di impalcatura, più o meno flessibile, che filtra, durante tutta la vita, ciò che deriva dall’interazione con l’ambiente. É attorno a questa impalcatura che ci costruiamo, in modo esplicito, l’immagine di noi nel mondo. In sostanza, l’insieme della conoscenza tacita ed esplicita costituisce la nostra identità, ciò che ci fa percepire come esseri unici, dotati di una coerenza interna e con una storia continua nel tempo.
Se una persona ha vissuto uno stato di deprivazione affettiva (una madre psicotica in questo caso), se ha sviluppato un accudimento inverso, se è stato sottoposto ad una invalidazione emotiva costante (“non hai ragione di arrabbiarti”), tenderà a sua volta a svalutare le proprie emozioni e i propri bisogni e a mantenere un ruolo periferico (se non può rivestire quello di salvatore). Ripercorre cioè quella strada che conosce sin da piccolo.
In questo caso Arthur diventa un clown, remissivo, passivo dinanzi alle ingiustizie, che non esprime i propri bisogni e nega le proprie emozioni, che squarcia drammaticamente il silenzio con la sua risata dissonante. E questa dissonanza emerge anche nell’espressione “Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente”.
Ma chi non ha mai saputo se esiste veramente può esistere agli occhi degli altri?
Il modo in cui noi ci percepiamo influenza il nostro stesso comportamento, e dunque la relazione con l’altro. Se io sento di non esistere mi comporto da invisibile e non vengo visto. Si tratta dunque di una profezia che si auto-avvera: “Io vi passo accanto ogni giorno e non mi notate”.
E, come scriveva William James (1890), “Non si potrebbe immaginare punizione più diabolica, se fosse fisicamente possibile, di quella di essere lasciato libero nella società e restare del tutto inosservato dai membri di questa”. Questo perché l’uomo è un essere sociale, il suo bisogno di appartenenza è un’esigenza biologica, indispensabile per la sua sopravvivenza e per la sopravvivenza della specie.
La solitudine è un fattore di rischio riconosciuto per la salute mentale e fisica. Agevola la comparsa dei Disturbi Mentali e ne complica il decorso aumentando la morbilità e la mortalità. Aumenta la mortalità di numerose patologie fisiche, pensiamo ad esempio al cancro, alle patologie cardiovascolari e all’AIDS.
E questo pericolo Arthur lo avverte. Per questo si rifugia in una relazione supportava, che però è frutto della sua mente, una piacevole esperienza irreale che verrà smascherata e che farà riaffiorare con prepotenza la solitudine. Ed è la solitudine il substrato che dà vita a Joker.
Joker può essere visto come il tentativo disperato di resistere e trovare un posto nel mondo, da parte di una persona con una organizzazione di significato personale rigida. Il tradimento della madre a cui ha dedicato tutta la vita, ultimo baluardo relazionale, costituisce un’esperienza impossibile da integrare nella propria narrazione. Si crea una frattura nella linea di vita dell’individuo che si avvia per un nuovo sentiero, lontano da quello abituale di rassegnazione e inerzia. Un sentiero fatto di rabbia e di azione, in cui Joker afferma “Ho sempre pensato alla mia vita come a una tragedia. Adesso vedo che è una commedia” e finalmente percepisce la propria vitalità e viene riconosciuto dagli altri “Ma esisto. E le persone iniziano a notarlo”. Diventa così un anti eroe, il salvatore dei reietti, e trova il suo posto nel mondo, uscendo dalla solitudine.
Sicuramente si sarebbero potute trovare strade alternative a quella del clown vendicatore. Indubbiamente sarebbe stata d’aiuto una società più includente, pronta all’ascolto dei bisogni dei più fragili; ma credo che le cose sarebbero potute andare diversamente anche permettendo ad Arthur di rendere più articolata la sua impalcatura cognitiva di base.
Non esistono predestinati, ma solo persone più vulnerabili che opportunamente guidate possono raggiungere maggiore consapevolezza, trovare nuove strategie per far fronte agli imprevisti e sperimentare relazioni sane!