Scritto da:
Dott. Michele Pongiluppi
Psicologo e Psicoterapeuta CBT
La personalità può essere definita come un sistema complesso di strutture e di processi psicologici che contribuiscono all’unità e alla continuità della condotta e dell’esperienza. Si sviluppa e funziona in un rapporto di influenza reciproca con l’ambiente. Ed è proprio in questa interazione che gli eventi di vita significativi contribuiscono allo strutturarsi in un’organizzazione interna di significati, quel filtro attraverso il quale l’individuo interpreterà le sue esperienze in un senso piuttosto che in un altro.
Eventi di vita avversi (esperienze traumatiche, o uno stile genitoriale problematico) possono costituire un fattore interferente su questo processo, orientando lo sviluppo della personalità in senso maladattivo.
E’ importante precisare che il singolo evento in sé e per sé non può essere sufficiente a determinare un esito così infausto. È piuttosto l’incalzare di ripetuti eventi negativi che annientano le capacità psicologiche di difesa dell’individuo o, singoli eventi traumatici che incidono su una vulnerabilità di base facilitando, in questo modo, lo slatentizzarsi di un disagio psichico. Quando questo avviene, si può assistere allo strutturarsi di veri e propri disturbi della personalità.
Intendiamo con questo, organizzazioni cognitive di significato e di comportamento stabili nel tempo; messe in atto in modo rigido e inflessibile nonostante le circostanze ne rivelino il carattere disfunzionale; e pervasive, cioè attuate in ogni contesto di vita relazione (familiare, lavorativo, amicale).
Lo studio dei disturbi della personalità è stato affrontato da diverse prospettive teoriche portando all’elaborazione di modelli di intervento diversi. In questa breve trattazione discuteremo alcuni di questi, tenendoci lontani dalla pretesa di fornire una rappresentazione esaustiva del panorama teorico attuale.
Nell’ambito del cognitivismo classico (Beck, 1990), ad esempio, i disturbi della personalità sono descritti come sottesi da specifici schemi cognitivi (credenze disfunzionali su di sé, sugli altri e sul mondo) che danno vita a stili disfunzionali di coping, in un circolo vizioso di automantenimento.
Gli schemi alterano la percezione degli eventi in un modo per cui le esperienze in contraddizione con le convinzioni dell’individuo vengono fraintese, trascurate o ridimensionate. Allo stesso tempo, l’interpretazione così discorsiva degli eventi orienta il comportamento in un senso che conferma le credenze di base.
Il lavoro terapeutico del clinico cognitivista è quindi rivolto all’individuazione e all’analisi critica delle credenze erronee che sostengono le difficoltà interpersonali dell’individuo. Il cambiamento a livello cognitivo procede di pari passo con la promozione del cambiamento a livello emotivo e comportamentale.
La Schema-Focused Cognitive Therapy (Young, 1994), altro modello cognitivista ad orientamento razionalista, approfondisce il concetto di schema collocandone lo sviluppo nell’infanzia e nell’adolescenza, ma puntualizza sul fatto che è nel corso delle esperienze di vita adulta che lo schema disfunzionale viene rinforzato e perpetuato. In breve, lo schema si strutturerebbe nell’interazione fra temperamento ed esperienze precoci ripetitive con genitori, fratelli/sorelle e pari e si ripete in età adulta quando, attivato da eventi stimolo (o anche un emozione trigger), genera emozioni intense; dà luogo a conseguenze sfavorevoli auto-limitanti, interferendo con la buona efficacia delle relazioni interpersonali.
Altro modello di rilievo di stampo cognitivista, è quello Metacognitivo Interpersonale (Semerari et al., 2007). Esso guida il paziente verso il riconoscimento di schemi personali ed interpersonali problematici, promuovendone una graduale modificazione, e nel contempo stimolando l’acquisizione di strategie di padroneggiamento della sofferenza.
Secondo questo modello, gli elementi che costituiscono i disturbi di personalità sono diversi: stati mentali problematici, deficit meta cognitivi caratteristici, cicli interpersonali e strategie di mastery disfunzionali.
Gli stati mentali problematici sono esperienze globali, alcune soggettivamente legate a sofferenza psicologica, costituite da temi di pensiero, emozioni, sensazioni e fenomeni somatici.
Tendono a presentarsi in forma discreta, discontinua rispetto alle altre narrazioni del paziente. Possono essere considerati stati problematici anche le esperienze che non sono soggettivamente vissute come dolorose ma che sono perseguite in modo rigido e coatto, per evitare, consapevolmente o meno, altri stati problematici.
Il modello metacognitivo-interpersonale definisce la metacognizione come l’insieme delle abilità che consentono all’individuo di attribuire e riconoscere la presenza di stati mentali (es. emozioni, pensieri, desideri, bisogni, intenzioni) in se stesso e negli altri – a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti ed azioni -, di riflettere e ragionare su di essi e di utilizzare tali conoscenze per prendere delle decisioni, risolvere i problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare efficacemente i propri desideri e scopi con gli altri. La metacognizione, quindi, è un processo di riflessione cosciente, dove la conoscenza psicologica di sé e dell’altro è utilizzata in modo consapevole ed intenzionale.
Da alcune ricerche scientifiche emerge che la metacognizione non è una funzione unica, ma è suddivisibile in tre aree principali: abilità metacognitive che consentono di riflettere e ragionare su se stessi (Autoriflessività), abilità metacognitive che permettono di riflettere e ragionare sugli stati interni ed il comportamento delle altre persone (Comprensione della Mente Altrui – CMA) e abilità metacognitive che consentono di gestire gli stati mentali problematici (Funzioni di Mastery).
Ognuna di queste aree è composta da sottofunzioni che operano in maniera indipendente tra loro così che un soggetto può essere in grado di usare adeguatamente alcune funzioni metacognitive e, allo stesso tempo, essere deficitario in altre. Il profilo di malfunzionamento metacognitivo, quindi, varia da persona a persona ed è strettamente associato alla gravità del disturbo psicologico presentato.
Le strategie di mastery sono intese come la capacità di operare sui propri stati mentali, costruendo e mettendo in pratica attività strategiche per risolvere compiti o per padroneggiare gli stati problematici fonte di sofferenza soggettiva.
Osservazioni cliniche e sperimentali suggeriscono che i pazienti con DP presentano pattern specifici di malfunzionamento delle abilità di riflessione sugli stati interni propri e altrui; della capacità di fare delle ipotesi plausibili sugli stati interni, le intenzioni e i comportamenti degli altri; della capacità di integrare tali esperienze all’interno di un pensiero coerente e, infine, delle capacità di gestione della sofferenza (abilità metacognitive). Tali malfunzionamenti differiscono in base al tipo di disturbo di personalità e i pazienti psichiatrici che presentano numerose disfunzioni metacognitive sono anche quelli che sviluppano una maggiore gravità dei sintomi, una più seria compromissione del funzionamento sociale e lavorativo e un disagio interno più elevato.
Il cognitivismo costruttivista propone un modello teorico dei disturbi della personalità che colloca al centro della sua attenzione l’attaccamento, concepito come la cornice entro la quale si sviluppano la rappresentazione del Sé e le strutture di significato.
Questo modello ha le sue radici nel lavoro svolto tra gli anni ’80-‘90 da Guidano e Liotti (considerati i padri del cognitivismo post-razionalista), e identifica alcune caratteristiche comuni ai diversi disturbi della personalità. Tra queste ritroviamo il fallimento nella costruzione di rappresentazioni stabili ed integrate di sè e dell’altro; la mancanza di autoregolazione; la difficoltà a funzionare adattivamente come figure d’attaccamento e a stabilire relazioni di affiliazione; condotte comportamentali appropriate in ambiti e contesti pro-sociali.
Nel trattamento dei disturbi di personalità Il terapeuta dovrebbe essere un perturbatore strategicamente orientato. Questo significa che, essendosi fatto un’idea delle modalità con le quali il paziente attribuisce dei significati e organizza le sue esperienze, il terapeuta promuove la sua riorganizzazione interna di significato aiutandolo a reinterpretare le esperienze. Il risultato sarà un ampliamento dei confini, nel senso che il paziente aggiungerà dei significati, rendendoli coerenti con il proprio senso di sé.
Il terapeuta che possiede una conoscenza approfondita dei diversi modelli potrà cogliere aspetti diversi del funzionamento della persona. Come un abile stratega potrà, in questo modo, attuare interventi terapeutici scientificamente fondati in risposta alle priorità emergenti nelle fasi di cura. Infatti, il livello di gravità e complessità del paziente affetto da disturbo grave della personalità richiede una costante rivisitazione e rimodulazione delle aspettative e degli obiettivi dei due coprotagonisti (terapeuta e paziente).
Vien da sè che il ricorso flessibile e integrato a strategie terapeutiche di derivazione teorica diversa permetterà di strutturare un percorso di cura focalizzato sulla centralità della persona e sulle risorse da potenziare, non unicamente sul disturbo e sugli elementi da modificare.
Riferimenti
A. Beck, Freeman, “Terapia cognitiva dei disturbi di personalità” 1993.
G. Dimaggio, A. Semerari ,“I disturbi di personalità. Modelli e trattamento” Laterza 2006.
P.Fonagy, “Attaccamento, sviluppo del sé e sua patologia nei disturbi di personalità” Articolo pubblicato su PSYCHOMEDIA in Maffei et AA “Trattamento dei disturbi di personalità” 1997.
V.Guidano,“Psicoterapia cognitiva post-razionalista” 2001 Angeli.
G.Liotti, “Disorganizzazione dell’attaccamento e predisposizione allo sviluppo di disturbi funzionali della coscienza” in AM.
Manniti, Stern, “Attaccamento e psicoanalisi” 1992 Laterza.
G.Liotti, “Il nucleo del disturbo borderline di personalità : un’ipotesi integrativa” in PSICOTERAPIA 1999 , 5 , 16/17 : pg 53-65 74.
R.Lorenzini, S. Sassaroli, “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità” 1995 Cortina.